"rascel

«Io prendo manciate di parole e le lancio in aria; sembrano coriandoli, ma alla fine vanno a posto come le tessere di un mosaico».
(Renato Rascel)
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sabato 7 settembre 2013

"nave da buon pilota governata è strano caso che si rompa a scoglio" .VARDIELLO


ovvero "Galletto",  il personaggio più presente nella mia prima infanzia. Fiaba della tradizione popolare narrata in tutto il meridione d'Italia e inserita da G.B. Basile nel suo Pentamerone.
L'ho ascoltata in molti dialetti e da persone che non dimenticherò mai, e sì mi sarà proprio difficile dimenticare Vardiello.



Ecco il testo pubblicato su http//pinu.it, integralmente e che secondome è il più vicino a quello recitato da V. DeSica nel video 



Vardiello

Grannonia d’Aprano fu donna di gran giudizio, ma aveva un figlio, chiamato Vardiello, il più scempiato semplicione di quel paese. E nondimeno, perché gli occhi della mamma sono stregati e travedono, essa gli portava un amore sviscerato, e se lo covava sempre e lisciava, come se fosse la più bella creatura del mondo.
Aveva questa Grannonia una chioccia e sperava di ottenerne una bella schiusa di pulcini e ricavarne buon profitto. E un giorno, dovendo allontanarsi per una faccenda, disse al figlio:
- Figlio bello di mamma tua, vieni qua, ascolta, abbi gli occhi su questa chioccia e, se si leva a beccare, bada a farla tornare al nido, altrimenti le uova si raffreddano e tu non avrai né cocchi né pulcini.
- Lascia fare a quest’uomo – rispose Vardiello – perché non hai parlato a sordo.
- Ancora – soggiunse la mamma – vedi figlio benedetto, che dentro quell’armadio c’è un vaso verniciato con certa roba velenosa. Guarda che il Tentatore non ti mettesse in capo d’andarla a toccare, perché tu stenderesti i piedi!
- Non sia mai! – rispose Vardiello – veleno non mi pigli! E tu savia con la testa pazza, che me lo hai avvisato; perché, veramente, potevo capitarci, e non c’era né spina né osso che m’impedisse di farlo scendere nello stomaco.
Volte che ebbe le spalle la mamma, rimase Vardiello, il quale, per non perder tempo, andò nell’orto a scavare certi fossetti coperti di fuscelli e terra da farvi cader dentro i fanciulli; quando, nel meglio del lavoro, s’accorse che la chioccia se n’andava passeggiando fuori della camera.
Ed egli subito a gridare: - Sciò, sciò, via di qua, passa là! – Ma la chioccia non si ritirava; e Vardiello, vedendo che la gallina aveva dell’asino, dopo lo “sciò sciò” si mise a battere i piedi; dopo lo sbattimento dei piedi, a gettarle dietro il suo berretto; e dopo il berretto, le scagliò un matterello, che, colpitala in pieno, la fece cadere in agonia e irrigidire le zampe.
La mala disgrazia era ormai avvenuta e Vardiello pensò di portar rimedio al danno, onde, facendo di necessità virtù, affinché le uova non si raffreddassero, si sbracò subito e si sedette sulla covata; ma, premendola col deretano, la ridusse a frittata.
Visto che egli l’aveva fatta doppia di figura, fu sul punto di dar la testa nelle mura. Ma, poiché infine ogni dolore torna a boccone, sentendo uno sfinimento allo stomaco, si risolse a cacciarvi dentro la chioccia. E perciò, spiumatala e infilzatala a un bello spiedo, accese un gran fuoco e cominciò ad arrostirla; e quando vide che era quasi cotta, affinché tutto fosse pronto a tempo, stese un bel canovaccio di bucato sopra un vecchio cassone e, preso un orciuolo, scese in cantina a spillare un caratello di vino.
Ma, nel meglio del versare il vino, udì un rumore, un fracasso, uno scompiglio per la casa, che pareva un passaggio di cavalli armati; e, tutto sbigottito, voltati gli occhi, scorse un gattone che aveva arraffato la chioccia con tutto lo spiedo, e un altro gatto gli era dietro, gridando per aver la sua parte.
Vardiello, per impedire questo danno, si lanciò come leone scatenato sul gatto; e, per la fretta, lasciò sturato il caratello.
Dopo aver giocato a “corrimi dietro” per tutti gli angoli della casa, ricuperò la gallina; ma intanto il vino del caratello scorse tutto a terra.
Tornando alla cantina e visto di averla fatta grossa, anch’esso la botte dell’anima dei cannelli si mise a piangere .
Ma, poiché il giudizio lo aiutava, per rimediare al danno, e per far che la madre non si avvedesse di tanta rovina, prese un sacco pieno pieno colmo colmo, raso raso di farina e lo andò spargendo sul bagnato.
Con tuttociò, facendo il conto sulle dita dei disastri accaduti, pensando che, per aver commesso eccessi di asineria, perdeva il giuoco della grazia di Grannonia, prese ferma risoluzione di non lasciarsi trovar vivo dalla madre. Tolse dunque dall’armadio il vaso con le noci conciate, che quella gli aveva detto esser veleno, e non ne levò la mano fintanto che non ne scoperse la patina lustra. E, riempitosi bene la pancia, si ficcò dentro il forno.
Intanto, tornò la madre e, dopo aver picchiato per un pezzo, non sentendo alcuno muoversi, dette un calcio alla porta ed entrò. E si mise a chiamare a gran voce il figlio; e, poiché nessuno rispondeva, immaginò una disgrazia, e, crescendo l’ambascia, levò forti le grida:
- O Vardiello, o Vardiello, sei diventato sordo che non odi? la malattia alle gambe o alla bocca che non rispondi? Dove sei, viso da forca? Dove sei squagliato, mala razza? Che ti avessi affogato in fasce quando ti feci! –
Vardiello, che udì questo grido, finalmente, con una vocina pietosa, disse:
- Eccomi qui, sto dentro al forno, e non mi vedrete più, mamma mia! –
- Perché? – domandò la povera madre.
- Perchè mi sono avvelenato – replicò il figlio.
- Ohimè – soggiunse Grannonia – e come hai fatto? E che motivo hai avuto di fare quest’omicidio, e chi ti ha dato il veleno?
E Vardiello le raccontò a una a una, tutte le belle prove che aveva compiute, e per le quali voleva morire e non restare più al mondo bersaglio di mala fortuna.
Udendo queste cose, la madre scura si vide, amara si vide, ed ebbe da fare e da dire per levare di capo a Vardiello quell’umore malinconico. E poiché gli portava tenerezza grande, con dargli alcune altre cose sciroppate gli tolse dal cervello la paura delle noci conciate, che non erano veleno, ma acconciamento di stomaco. Così, calmatolo con buone parole, e fattegli mille carezzette, lo tirò fuori dal forno.
Pensò poi, per quietarlo del tutto, di affidargli una bella pezza di tela, affinché la portasse a vendere, ammonendolo di non trattare il negozio con persone di troppe parole.

- Brava! – disse Vardiello – ti servirò profumatamente, non dubitare – E, presa sotto il braccio la tela, si avviò verso la città.
Andava in giro con la sua mercanzia per le strade e le piazze di Napoli, gettando il grido:
- Tela, tela! – Ma, a tutti quelli che gli si avvicinavano domandando : - Che tela è? – subito rispondeva: - Non fai per la casa mia, che hai troppe parole. - E se un altro gli domandava: - A quanto la vendi? – lo chiamava chiacchierone, e che lo aveva stordito e gli aveva rotte le tempie.
In ultimo, scorgendo in un cortile di una casa, disabitata perché frequentata da uno spiritello, una statua di stucco, il poverino, spedato e stracco dal tanto andare in giro, si sedette sopra un muricciolo; e, non vedendo entrare e uscire nessuno da quella casa, che pareva un villaggio saccheggiato, pieno di meraviglia, disse alla statua: 
-Di su, camerata, abita alcuno in questa casa? - E poiché quella non rispondeva, gli parve persona di poche parole, e subito le propose: - Vuoi comprare questa tela? – Io te la darò a buon mercato. –
E la statua zitto, e lui: - Affè, ho trovato quello che andavo cercando! Prendila e falla esaminare, e dammene il prezzo che ti piace: domani torno pei quattrini. –
Ciò detto, lasciò la tela sul muricciolo al quale s’era seduto; e il primo che si trovò a passare e che entrò in quel cortile…trovata quella bella ventura se la portò via.
Quando Vardiello fu tornato alla madre senza tela, ed ebbe raccontato il caso, la povera donna si sentì scoppiare il cuore. E cominciò a rimbrottarlo:
- Quando metterai il cervello a sesto? Vedi quante ne hai fatte? Ricordatene! Ma la colpa è, prima di tutto mia, per essere troppo tenera di cuore, non t’ho fin dal primo momento raddrizzato con una buona bastonatura: e ora m’avvedo che medico pietoso fa la piaga incurabile! Ma tante me ne hai fatte che alla fine c’incapperai: e allora i conti saranno lunghi! –
Vardiello dal canto suo badava a dire:
- Zitto, mamma mia, che non sarà quel che tu dici. Avrai ben altro che tornesi coniati nuovi! Credi forse che vengo da Salerno e che non sappia il conto mio? Ha da venir domani! Di qui a Belvedere non c’è molto, e vedrai che so mettere il manico a questa pala! –
Al mattino, quando le ombre della notte perseguitate dagli sbirri del sole sfrattano il paese, Vardiello si portò al cortile dove era la statua, e le parlò:
- Buon dì, messere! Non t’incomoda di darmi quei quattro spiccioli? Orsù, pagami la tela! –
Ma poiché la statua se ne rimaneva muta, egli raccattò un sasso e lo scagliò di tutta forza proprio in mezzo allo sterno di quella, tanto che le ruppe una vena; e questa fu la salute della sua casa. Perché rotti certi ammassi d’intonaco, gli apparve agli occhi una pignatta piena di scudi d’oro, che egli levò con le sue mani e si diède a una corsa a scavezzacollo verso casa sua.
Entrò gridando: - Mamma, mamma, vedi quanti lupini rossi! Quanti neh! Quanti! –
Ma la madre, nell’accogliere la fortuna di quegli scudi così impensatamente guadagnati, riflettè subito che il figlio sarebbe andato a raccontare la cosa, e provvide al rischio.
Disse, dunque, a Vardiello, che si fosse messo innanzi alla porta per vedere quando passava il ricottaro, poiché le bisognava comprare un litro di latte.
Vardiello, che era un gran bonaccione, subito si sedette alla porta; e la madre, dalla finestra di sopra, gli fece grandinare addosso, per oltre mezz’ora, più di sei rotoli d’uva passa e di fichi secchi. Ed egli li raccoglieva gridando: 
- Mamma, o mamma, prendi conche, porta tinozze, porgi canestri, che, se dura questa pioggia, ci faremo ricchi! – E quando se ne fu ben riempito il ventre, salì in camera e si buttò a dormire.
Avvenne che un giorno, litigando due del popolo, gente di malaffare, per la pretesa di uno scudo d’oro che avevano trovato a terra, capitò in quel punto Vardiello che disse:
- Come siete arciasini a far tante chiacchiere per un lupino rosso di questa sorta! Io non ne faccio neppure stima, perché ne ho trovato per mio conto una pignatta piena piena.! –
La Corte, informata del detto e messa in sospetto, lo mandò a chiamare e lo sottopose a processo per saper come, quando e con chi avesse trovato gli scudi di cui aveva parlato.
Vardiello rispose: - Li ho trovati in un palazzo, nel corpo di un uomo muto, in quel giorno che ci fu pioggia di uva passa e di fichi secchi. –
Il giudice che sentì questo parlare a vanvera, chiuse la causa e decretò che fosse mandato all'ospedale, che era il suo giudice competente.
Così, l’ignoranza del figlio fece ricca la madre, e il buon giudizio della madre riparò all’asinità del figlio, per la qual cosa si vede chiaramente che:

nave da buon pilota governata
è strano caso che si rompa a scoglio.


Illustrazione di Warwick Goble"



Qui troverete il testo originale de "lo cunto de li cunti" di g. b.Basile ne  letteraturaitaliana.net Volume_6/t133



Riporto integralmente la  recensione, molto chiara e completa sul Pentamerone di G. B. Basile, pubblicata su www. parados.it (http://www.parodos.it/news/basile.htm). da Raccolta di novelle di Giambattista Basile da cui è tratto il nostro "cunto"
"Pubblicata postuma con l'anagramma di Gian Alesio Abbatutis, l'opera ebbe anche il sottotitolo di Pentameròn o Lo trattenemiento de peccerille; è in dialetto napoletano, con inserite quattro egloghe, che sono altrettante satire: La coppella (gli uomini sono in realtà diversi da quel che paiono), La tenta (sferza l'ipocrisia), La vorpara (condanna l'avidità di guadagno), La stufa (le noie dei piaceri umani). Si racconta la storia di Zoza, principessa melanconica, che non ride mai: un giorno vede da una finestra un ragazzo litigare con una vecchia; questa fa a un certo momento un gesto così volgare e osceno, che la stessa Zoza si mette a ridere. La vecchia allora la maledice e le dice che non avrà più pace fino a che non sposerà il principe di Camporotondo; così la principessa si mette in viaggio con tre oggetti incantati e finalmente trova il principe, che è in catalessi, dentro una tomba con accanto un'anfora: solo se l'anfora si riempirà di lacrime, Zoza potrà svegliare il principe; ma a metà dell'opera Zoza si addormenta. Ne approfitta una schiava, che colma il vaso di lacrime: il principe si sveglia e la sposa. Grande è la disperazione di Zoza, la quale con l'aiuto di uno degli oggetti incantati riesce a infondere nella moglie del principe un incontenibile desiderio di sentire raccontare favole; vengono invitate alcune vecchie narratrici; l'ultimo giorno si presenta anche Zoza, la quale rivela la vera storia e riesce così a sposare il principe. Cinque sono le giornate delle favolatrici, ciascuna composta di dieci novelle. Considerata dai fratelli Grimm una bella raccolta di favole, il Pentameròn è la vera espressione della voce del popolo. Si ispira evidentemente alla raccolta di novelle (Decameron) di Boccaccio, ma con alcune differenze: le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, tra cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici (Zeza è sciancata, Cecca storta, Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, ecc.).
Più che novelle, le storie narrate da Basile sono fiabe tratte in genere dalla tradizione popolare, che l'autore trasforma però in prodotti letterari, con l'uso di un dialetto più colto di quello effettivamente parlato e con l'inserimento di notazioni ironiche e commenti moralistici.Infine la scelta di scrivere in lingua napoletana corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi."
Se si vuole completare il discorso su G. B. Basile e saperne di più,  qui  c'è tutto il discorso critico interessantissimo scritto da Michele Rack .

sabato 16 marzo 2013

"GIOVANNIN SENZA PAURA"

Immagine da Google
il mio primo vero thriller.
 ... quanti ricordi!!!!
Ancora una volta il mio surfing quotidiano è stato premiato. Per me è sempre una grande emozione ricevere un regalo, ma quelli della rete, imprevedibili e inaspettati, mi rendono immensamente felice.
E sì, mi sono imbattuta nel mio primo thriller, pensate, non sapevo ancora leggere.  Una storia che ora posso dire sembra uscire dalla fantasia dell' Edgard Allan Poe dei suoi famosissimi racconti, che ho divorato nella mia adolescenza.
L'avevo rimossa e avevo rimosso anche quei bei momenti passati ad ascoltarla nelle sere d'inverno, di un dopoguerra miserabile ma pieno di speranza.
E' un'antica fiaba della  tradizione popolare, io l' ascoltavo con grande attenzione, ma anche con i brividi della paura che mi facevano rifugiare nel caldo e rassicurante abbraccio di mia madre o stretta in un abbraccio a tre con le mie sorelle.
"Giovanin senza paura" ritrovato nella rete ha rinnovato in me l'emozione che mi pervadeva quando la sentivo dalla voce di mio padre. La raccontava, anzi la recitava, alternando ingenue e un po' censurabili imprecazioni con pause che aumentavano sempre più il pathos della narrazione rendendo la storia più ricca di particolari terrificanti di quanto non lo lo fosse effettivamente.Questo accadeva prima che  Italo Calvino curasse la raccolta di "Fiabe Italiane".
Mi trovo d'accordo con quanto l'illustre scrittore  di questa fiaba  scrive nell'introduzione del suo lavoro. Condivido quello che dice, nelle sue parole ritrovo le motivazioni di quella emozione che mi prendeva a quei tempi. L'ho trovato qui  e vi assicuro è un sito molto interessante merita una lettura.
Immagine da Google l'ho trovata qui
 Italo Calvino dice che Giovannin senza paura è "perpetuato attraverso una tradizione più umile e familiare, con caratteristiche che si possono sintetizzare nelle seguenti: tema pauroso e truculento, particolari scatologici o corpo laici, versi intercalati alla prosa con tendenza alla filastrocca. Caratteristiche in gran parte opposte a quel che sono oggi i requisiti della letteratura infantile… La morale della fiaba è sempre implicita, nella vittoria delle semplici virtù dei personaggi buoni e nel castigo delle altrettanto semplici e assolute perversità dei malvagi; quasi mai vi s’insiste in forma sentenziosa o pedagogica. E forse la funzione morale che il raccontar fiabe ha nell’intendimento popolare, va cercata non nella direzione dei contenuti ma nell'istituzione stessa della fiaba, nel fatto di raccontarle e d’udirle”(Calvino, Fiabe italiane, volume I, Oscar Mondadori, Milano, 2011, Introduzione XLVI).
E' la storia di Giovannino, un ragazzotto, un adolescente avventuroso, che girava il mondo  in cerca di fortuna.
Da quando si era allontanato dalla sua povera famiglia si era imbattuto in tante avventure, tutte affrontato con tanto coraggio e sempre sicuro di sé. Così si godeva la sua spensierata libertà senza paura di nulla.
Ma arrivò il giorno della sua ultima avventura.
...  eccola narrata da  Fiabelica:

 

... e Calvino scrive così:
"C'era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò in una locanda a chiedere alloggio. - Qui posto non ce n'è, - disse il padrone, - ma se non hai paura ti mando in un palazzo.- Perché dovrei aver paura?-Perché ci si sente, e nessuno ne è potuto uscire altro che morto. La mattina ci va la Compagnia con la bara a prendere chi ha avuto il coraggio di passarci la notte.Figuratevi Giovannino! Si portò un lume, una bottiglia e una salsiccia, e andò.A mezzanotte mangiava seduto a tavola, quando dalla cappa del camino sentí una voce: - Butto?E Giovannino rispose: - E butta!Dal camino cascò giú una gamba d'uomo. Giovannino bevve un bicchier di vino.Poi la voce disse ancora: - Butto?E Giovannino: - E butta! - e venne giú un'altra gamba. Giovannino addentò la salciccia.- Butto?- butta! - e viene giú un braccio. Giovannino si mise a fischiettare.- Butto?- E butta! - un altro braccio.- Butto?- Butta!E cascò un busto che si riappiccicò alle gambe e alle braccia, e restò un uomo in piedi senza testa.- Butto? (a questo punto nel racconto del mio papà, c'era una frase che a quel tempo era diventata il nostro slogan, un tormentone. Lo gridava, col tono di sfida, di chi stava per perdere la pazienza, proprio come Giovanin:"Buttati pure tu e falla finita!!!" e qui risuonava la nostra eccitatissima risata che sottolineava il climax della vicenda)
- Butta!
Cascò la testa e saltò in cima al busto. Era un omone gigantesco, e Giovannino alzò il bicchiere e disse: - Alla salute!
L'omone disse: - Piglia il lume e vieni.
Gíovannino prese il lume ma non si mosse. - Passa avanti! - disse l'uomo.
Passa tu, - disse Giovannino.
Tu! - disse l'uomo.
Tu! - disse Giovannino.
Allora l'uomo passò lui e una stanza dopo l'altra traversò il palazzo, con Giovannino dietro che faceva lume. In un sottoscala c'era una porticina.
Apri! - disse l'uomo a Giovannino. E Giovannino: - Apri tu!
E l'uomo aperse con una spallata.
C'era una scaletta a chiocciola
- Scendi, - disse l'uomo.
- Scendi prima tu, - disse Giovannino.
Scesero in un sotterraneo, e l'uomo indicò una lastra in terra. - Alzala!
-Alzala tu! - disse Giovannino, e l'uomo la sollevò come fosse stata una pietruzza.
Sotto c'erano tre marmitte d'oro. - Portale su! - disse l'uomo. - Portale su tu! - disse Giovannino. E l'uomo se le portò su una per volta.
Quando furono di nuovo nella sala del camino, l'uomo disse: - Giovannino, l'incanto è rotto! - Gli si staccò una gamba e scaldò via, su per il carnino. - Di queste marmitte una è per te, - e gli si staccò un braccio e s'arrampicò per il camino. - Un'altra è per la Compagnia che ti verrà a prendere credendoti morto, - e gli si staccò anche l'altro braccio e inseguí il primo. - La terza è per il primo povero che passa, - gli si staccò l'altra gamba e rimase seduto per terra. - Il palazzo tientelo pure tu, - e gli si staccò il busto e rimase solo la testa posata in terra. - Perché dei padroni di questo palazzo, è perduta per sempre ormai la stirpe, - e la testa si sollevò e salí per la cappa del camino.
Appena schiarí il cielo, si sentí un canto: Miserere meí, miserere meí, ed era la Compagnia con la bara che veniva a prendere Giovannino morto. E lo vedono alla finestra che fumava la pipa.
Giovannin senza paura con quelle monete d'oro fu ricco e abitò felice nel palazzo. Finché un giorno non gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morí."
Il finale è alla E. A. Poe, o anche alla Alfred Hitchcock, vero? Con l'ironica morale e la beffa del destino sempre in agguato, che alla fine si svela, ma non c'è più nulla da fare.
Quella che raccontavano a me aveva un lieto fine. Forse perchè chi me la raccontava sapeva che il lieto fine accresce  la fiducia nella vita di chi ascolta. Oppure soltanto perchè a lui piacevano le storie che si concludevano col sorriso sui nostri visi. Quei visi che avevano cambiato espressione ad ogni pausa e ad ogni "butta" di Giovannin e nei cui occhi aveva sempre brillato la luce della speranza, malgrado tutto.
Lui concludeva sempre così: "Giovannino incontrò una bellissima ragazza, la sposò, ebbero dei bei figli e vissero felici e contenti per tantissimi anni.
Morale della favola: il coraggio dei buoni e degli onesti, viene sempre premiato anche se si devono superare dure e difficilissime prove che ci sottopone la vita con le sue malvagità .




domenica 24 febbraio 2013

Chi se la ricorda?

... io la ricordo cantata da una carissima nonnina che da bambina piccolissima avevo adottata con reciproco amore e coccole, ma anche così come nel video dalla voce del grandissimo Paolo Poli,
... poi la ricordo cantata dalle vocette dei miei figli,
... aspetto di ascoltarla nella versione 2000 dalla vocetta della mia nipotina

Non è un esempio di Italian Evergreen?