"rascel

«Io prendo manciate di parole e le lancio in aria; sembrano coriandoli, ma alla fine vanno a posto come le tessere di un mosaico».
(Renato Rascel)
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mercoledì 11 settembre 2013

CON TUTTO IL CUORE: TANTI AUGURI SCUOLA !

... mai come ora ne hai bisogno!
Nel mio surfing quotidiano mi sono imbattuta in  questo video di YouTube (http://www.youtube.com/watch?v=Dyk0H1_EXuU). Ve lo propongo, è adatto per tutte le età: ci siamo passati tutti.
Come dice Barbara Caci  che lo ha pubblicato, è un regalo.
...io l' ho accolto proprio come regalo ad una "vecchia" mamma , insegnante affetta da "sindrome scolastica acuta" che non smette di amare e odiare la scuola.



Ecco la presentazione del video con le raccomandazioni sempre valide di Abraham Lincoln.
Bene, è proprio quello che ho sempre pensato e sostenuto e per cui molto spesso anche lottando.

Pubblicato in data 11/ago/2013
"Un regalo per tutti i genitori, ma soprattutto per gli insegnanti che si prendono cura di bambini e i ragazzi con dedizione e considerano il loro lavoro come una "missione".
"Il carattere funzionale dell'insegnamento riduce l'insegnante a un semplice impiegato. Il carattere professionale dell'insegnamento porta a ridurre l'insegnante all'esperto. L'insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione.
Una missione di trasmissione.
La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre a una tecnica, un'arte.
Essa richiede ciò che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento: l'eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L'eros permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. È ciò che in primo luogo può suscitare il desiderio, il piacere e l'amore dell'allievo e dello studente.
Là dove non c'è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l'insegnamento.
La missione suppone evidentemente la fede, in questo caso la fede nella cultura e nelle possibilità della mente umana."
(Da Edgar Morin, "La testa ben fatta", Raffaello Cortina Editore)"

Lettera all'insegnante di suo figlio
(Abraham Lincoln Hodgenville, Kentucky, USA 12/2/1809 – Washington, USA 15/4/1865)

Dovrà imparare, lo so, che non tutti gli uomini sono giusti, che non tutti gli uomini sono sinceri.
Però gli insegni anche che per ogni delinquente, c’è un eroe;
che per ogni politico egoista c’è un leader scrupoloso
Gli insegni che per ogni nemico c’è un amico,
cerchi di tenerlo lontano dall’invidia, se ci riesce,
e gli insegni il segreto di una risata discreta.
Gli faccia imparare subito che i bulli sono i primi ad essere sconfitti.
Se può, gli trasmetta la meraviglia dei libri.
Ma gli lasci anche il tempo tranquillo per ponderare l’eterno mistero degli uccelli nel cielo, delle api nel sole e dei fiori su una verde collina.
Gli insegni che a scuola è molto più onorevole sbagliare piuttosto che imbrogliare.
Gli insegni ad avere fiducia nelle proprie idee, anche se tutti gli dicono che sta sbagliando.
Gli insegni ad essere gentile con le persone gentili e rude con i rudi.
Cerchi di dare a mio figlio la forza per non seguire la massa, anche se tutti saltano sul carro del vincitore.
Gli insegni a dare ascolto a tutti gli uomini,
ma gli insegni anche a filtrare ciò che ascolta col setaccio della verità, trattenendo solo il buono che vi passa attraverso.
Gli insegni, se può, come ridere quando è triste.
Gli insegni che non c’è vergogna nelle lacrime.
Gli insegni a schernire i cinici ed a guardarsi dall’eccessiva dolcezza.
Gli insegni a vendere la sua merce al miglior offerente, ma a non dare mai un prezzo al proprio cuore e alla propria anima.
Gli insegni a non dare ascolto alla gentaglia urlante e ad alzarsi e combattere, se è nel giusto.
Lo tratti con gentilezza, ma non lo coccoli, perché solo attraverso la prova del fuoco si fa un buon acciaio.
Lasci che abbia il coraggio di essere impaziente.
Lasci che abbia la pazienza per essere coraggioso.
Gli insegni sempre ad avere una sublime fiducia in sé stesso,
perché solo allora avrà una sublime fiducia nel genere umano.
So che la richiesta è grande, ma veda cosa può fare.
E’ un così caro ragazzo, mio figlio!

-----.....-----
Quale chiosa per questo difficilissimo e delicato argomento potrebbe essere più giusta ed opportuna del commento di una mamma, di un'amica blogger delicata e sensibile,  Catherine Sinclair (alias Mari di "dalla mia terra alla tua" ), che mi ha letteralmente commossa dando voce ai miei sentimenti di insegnante verso i miei studenti ormai genitori in campo?
Uso le sue parole per dire GRAZIE.

"Grazie cari alunni di esserci stati in questo cammino,
grazie di averci ricordato con la vostra presenza che
educare è accompagnare e poi lasciare...."

E' il messaggio  delle maestre a suo  figlio (e a tutta la sua classe) alla fine del ciclo scolastico della scuola elementare dopo cinque anni di conquiste reciproche.
Ecco, forse è meglio riportare tutto il testo.
"Il tempo è passato velocemente.
Ogni giorno si è aggiunto al successivo
come le perline colorate in un filo che non diventa mai collana.
Un filo aperto sull'oggi che è già domani,
che si allunga, si intreccia, si rompe, si disfa e di nuovo si tesse
in una lunga tela che ci racconta nella storia semplice di questi cinque anni insieme.
Una tela che ci porteremo sempre con noi e ci dice che quel filo, come quello di un aquilone
ora lo dobbiamo lasciare andare, perchè lo chiama un altro vento che
lo spingerà lontano.
Un'opera incompiuta la nostra, incompleta, aperta al domani.
Così deve essere! Le vostre maestre si fermano qui.
Mettiamo il punto. Punto e basta!
Perchè la nostra è una storia che continua.
Belli, irripetibili siete stati per noi, diversi ed unici nel modo d'essere,
ma uguali nel sentimento che proviamo per ciascuno di voi.
Dove noi finiamo, in un altro modo, inizia il vostro futuro.
Grazie cari alunni di esserci stati in questo cammino,
grazie di averci ricordato con la vostra presenza che
educare è accompagnare e poi lasciare...."


Grazie Mari

sabato 7 settembre 2013

"nave da buon pilota governata è strano caso che si rompa a scoglio" .VARDIELLO


ovvero "Galletto",  il personaggio più presente nella mia prima infanzia. Fiaba della tradizione popolare narrata in tutto il meridione d'Italia e inserita da G.B. Basile nel suo Pentamerone.
L'ho ascoltata in molti dialetti e da persone che non dimenticherò mai, e sì mi sarà proprio difficile dimenticare Vardiello.



Ecco il testo pubblicato su http//pinu.it, integralmente e che secondome è il più vicino a quello recitato da V. DeSica nel video 



Vardiello

Grannonia d’Aprano fu donna di gran giudizio, ma aveva un figlio, chiamato Vardiello, il più scempiato semplicione di quel paese. E nondimeno, perché gli occhi della mamma sono stregati e travedono, essa gli portava un amore sviscerato, e se lo covava sempre e lisciava, come se fosse la più bella creatura del mondo.
Aveva questa Grannonia una chioccia e sperava di ottenerne una bella schiusa di pulcini e ricavarne buon profitto. E un giorno, dovendo allontanarsi per una faccenda, disse al figlio:
- Figlio bello di mamma tua, vieni qua, ascolta, abbi gli occhi su questa chioccia e, se si leva a beccare, bada a farla tornare al nido, altrimenti le uova si raffreddano e tu non avrai né cocchi né pulcini.
- Lascia fare a quest’uomo – rispose Vardiello – perché non hai parlato a sordo.
- Ancora – soggiunse la mamma – vedi figlio benedetto, che dentro quell’armadio c’è un vaso verniciato con certa roba velenosa. Guarda che il Tentatore non ti mettesse in capo d’andarla a toccare, perché tu stenderesti i piedi!
- Non sia mai! – rispose Vardiello – veleno non mi pigli! E tu savia con la testa pazza, che me lo hai avvisato; perché, veramente, potevo capitarci, e non c’era né spina né osso che m’impedisse di farlo scendere nello stomaco.
Volte che ebbe le spalle la mamma, rimase Vardiello, il quale, per non perder tempo, andò nell’orto a scavare certi fossetti coperti di fuscelli e terra da farvi cader dentro i fanciulli; quando, nel meglio del lavoro, s’accorse che la chioccia se n’andava passeggiando fuori della camera.
Ed egli subito a gridare: - Sciò, sciò, via di qua, passa là! – Ma la chioccia non si ritirava; e Vardiello, vedendo che la gallina aveva dell’asino, dopo lo “sciò sciò” si mise a battere i piedi; dopo lo sbattimento dei piedi, a gettarle dietro il suo berretto; e dopo il berretto, le scagliò un matterello, che, colpitala in pieno, la fece cadere in agonia e irrigidire le zampe.
La mala disgrazia era ormai avvenuta e Vardiello pensò di portar rimedio al danno, onde, facendo di necessità virtù, affinché le uova non si raffreddassero, si sbracò subito e si sedette sulla covata; ma, premendola col deretano, la ridusse a frittata.
Visto che egli l’aveva fatta doppia di figura, fu sul punto di dar la testa nelle mura. Ma, poiché infine ogni dolore torna a boccone, sentendo uno sfinimento allo stomaco, si risolse a cacciarvi dentro la chioccia. E perciò, spiumatala e infilzatala a un bello spiedo, accese un gran fuoco e cominciò ad arrostirla; e quando vide che era quasi cotta, affinché tutto fosse pronto a tempo, stese un bel canovaccio di bucato sopra un vecchio cassone e, preso un orciuolo, scese in cantina a spillare un caratello di vino.
Ma, nel meglio del versare il vino, udì un rumore, un fracasso, uno scompiglio per la casa, che pareva un passaggio di cavalli armati; e, tutto sbigottito, voltati gli occhi, scorse un gattone che aveva arraffato la chioccia con tutto lo spiedo, e un altro gatto gli era dietro, gridando per aver la sua parte.
Vardiello, per impedire questo danno, si lanciò come leone scatenato sul gatto; e, per la fretta, lasciò sturato il caratello.
Dopo aver giocato a “corrimi dietro” per tutti gli angoli della casa, ricuperò la gallina; ma intanto il vino del caratello scorse tutto a terra.
Tornando alla cantina e visto di averla fatta grossa, anch’esso la botte dell’anima dei cannelli si mise a piangere .
Ma, poiché il giudizio lo aiutava, per rimediare al danno, e per far che la madre non si avvedesse di tanta rovina, prese un sacco pieno pieno colmo colmo, raso raso di farina e lo andò spargendo sul bagnato.
Con tuttociò, facendo il conto sulle dita dei disastri accaduti, pensando che, per aver commesso eccessi di asineria, perdeva il giuoco della grazia di Grannonia, prese ferma risoluzione di non lasciarsi trovar vivo dalla madre. Tolse dunque dall’armadio il vaso con le noci conciate, che quella gli aveva detto esser veleno, e non ne levò la mano fintanto che non ne scoperse la patina lustra. E, riempitosi bene la pancia, si ficcò dentro il forno.
Intanto, tornò la madre e, dopo aver picchiato per un pezzo, non sentendo alcuno muoversi, dette un calcio alla porta ed entrò. E si mise a chiamare a gran voce il figlio; e, poiché nessuno rispondeva, immaginò una disgrazia, e, crescendo l’ambascia, levò forti le grida:
- O Vardiello, o Vardiello, sei diventato sordo che non odi? la malattia alle gambe o alla bocca che non rispondi? Dove sei, viso da forca? Dove sei squagliato, mala razza? Che ti avessi affogato in fasce quando ti feci! –
Vardiello, che udì questo grido, finalmente, con una vocina pietosa, disse:
- Eccomi qui, sto dentro al forno, e non mi vedrete più, mamma mia! –
- Perché? – domandò la povera madre.
- Perchè mi sono avvelenato – replicò il figlio.
- Ohimè – soggiunse Grannonia – e come hai fatto? E che motivo hai avuto di fare quest’omicidio, e chi ti ha dato il veleno?
E Vardiello le raccontò a una a una, tutte le belle prove che aveva compiute, e per le quali voleva morire e non restare più al mondo bersaglio di mala fortuna.
Udendo queste cose, la madre scura si vide, amara si vide, ed ebbe da fare e da dire per levare di capo a Vardiello quell’umore malinconico. E poiché gli portava tenerezza grande, con dargli alcune altre cose sciroppate gli tolse dal cervello la paura delle noci conciate, che non erano veleno, ma acconciamento di stomaco. Così, calmatolo con buone parole, e fattegli mille carezzette, lo tirò fuori dal forno.
Pensò poi, per quietarlo del tutto, di affidargli una bella pezza di tela, affinché la portasse a vendere, ammonendolo di non trattare il negozio con persone di troppe parole.

- Brava! – disse Vardiello – ti servirò profumatamente, non dubitare – E, presa sotto il braccio la tela, si avviò verso la città.
Andava in giro con la sua mercanzia per le strade e le piazze di Napoli, gettando il grido:
- Tela, tela! – Ma, a tutti quelli che gli si avvicinavano domandando : - Che tela è? – subito rispondeva: - Non fai per la casa mia, che hai troppe parole. - E se un altro gli domandava: - A quanto la vendi? – lo chiamava chiacchierone, e che lo aveva stordito e gli aveva rotte le tempie.
In ultimo, scorgendo in un cortile di una casa, disabitata perché frequentata da uno spiritello, una statua di stucco, il poverino, spedato e stracco dal tanto andare in giro, si sedette sopra un muricciolo; e, non vedendo entrare e uscire nessuno da quella casa, che pareva un villaggio saccheggiato, pieno di meraviglia, disse alla statua: 
-Di su, camerata, abita alcuno in questa casa? - E poiché quella non rispondeva, gli parve persona di poche parole, e subito le propose: - Vuoi comprare questa tela? – Io te la darò a buon mercato. –
E la statua zitto, e lui: - Affè, ho trovato quello che andavo cercando! Prendila e falla esaminare, e dammene il prezzo che ti piace: domani torno pei quattrini. –
Ciò detto, lasciò la tela sul muricciolo al quale s’era seduto; e il primo che si trovò a passare e che entrò in quel cortile…trovata quella bella ventura se la portò via.
Quando Vardiello fu tornato alla madre senza tela, ed ebbe raccontato il caso, la povera donna si sentì scoppiare il cuore. E cominciò a rimbrottarlo:
- Quando metterai il cervello a sesto? Vedi quante ne hai fatte? Ricordatene! Ma la colpa è, prima di tutto mia, per essere troppo tenera di cuore, non t’ho fin dal primo momento raddrizzato con una buona bastonatura: e ora m’avvedo che medico pietoso fa la piaga incurabile! Ma tante me ne hai fatte che alla fine c’incapperai: e allora i conti saranno lunghi! –
Vardiello dal canto suo badava a dire:
- Zitto, mamma mia, che non sarà quel che tu dici. Avrai ben altro che tornesi coniati nuovi! Credi forse che vengo da Salerno e che non sappia il conto mio? Ha da venir domani! Di qui a Belvedere non c’è molto, e vedrai che so mettere il manico a questa pala! –
Al mattino, quando le ombre della notte perseguitate dagli sbirri del sole sfrattano il paese, Vardiello si portò al cortile dove era la statua, e le parlò:
- Buon dì, messere! Non t’incomoda di darmi quei quattro spiccioli? Orsù, pagami la tela! –
Ma poiché la statua se ne rimaneva muta, egli raccattò un sasso e lo scagliò di tutta forza proprio in mezzo allo sterno di quella, tanto che le ruppe una vena; e questa fu la salute della sua casa. Perché rotti certi ammassi d’intonaco, gli apparve agli occhi una pignatta piena di scudi d’oro, che egli levò con le sue mani e si diède a una corsa a scavezzacollo verso casa sua.
Entrò gridando: - Mamma, mamma, vedi quanti lupini rossi! Quanti neh! Quanti! –
Ma la madre, nell’accogliere la fortuna di quegli scudi così impensatamente guadagnati, riflettè subito che il figlio sarebbe andato a raccontare la cosa, e provvide al rischio.
Disse, dunque, a Vardiello, che si fosse messo innanzi alla porta per vedere quando passava il ricottaro, poiché le bisognava comprare un litro di latte.
Vardiello, che era un gran bonaccione, subito si sedette alla porta; e la madre, dalla finestra di sopra, gli fece grandinare addosso, per oltre mezz’ora, più di sei rotoli d’uva passa e di fichi secchi. Ed egli li raccoglieva gridando: 
- Mamma, o mamma, prendi conche, porta tinozze, porgi canestri, che, se dura questa pioggia, ci faremo ricchi! – E quando se ne fu ben riempito il ventre, salì in camera e si buttò a dormire.
Avvenne che un giorno, litigando due del popolo, gente di malaffare, per la pretesa di uno scudo d’oro che avevano trovato a terra, capitò in quel punto Vardiello che disse:
- Come siete arciasini a far tante chiacchiere per un lupino rosso di questa sorta! Io non ne faccio neppure stima, perché ne ho trovato per mio conto una pignatta piena piena.! –
La Corte, informata del detto e messa in sospetto, lo mandò a chiamare e lo sottopose a processo per saper come, quando e con chi avesse trovato gli scudi di cui aveva parlato.
Vardiello rispose: - Li ho trovati in un palazzo, nel corpo di un uomo muto, in quel giorno che ci fu pioggia di uva passa e di fichi secchi. –
Il giudice che sentì questo parlare a vanvera, chiuse la causa e decretò che fosse mandato all'ospedale, che era il suo giudice competente.
Così, l’ignoranza del figlio fece ricca la madre, e il buon giudizio della madre riparò all’asinità del figlio, per la qual cosa si vede chiaramente che:

nave da buon pilota governata
è strano caso che si rompa a scoglio.


Illustrazione di Warwick Goble"



Qui troverete il testo originale de "lo cunto de li cunti" di g. b.Basile ne  letteraturaitaliana.net Volume_6/t133



Riporto integralmente la  recensione, molto chiara e completa sul Pentamerone di G. B. Basile, pubblicata su www. parados.it (http://www.parodos.it/news/basile.htm). da Raccolta di novelle di Giambattista Basile da cui è tratto il nostro "cunto"
"Pubblicata postuma con l'anagramma di Gian Alesio Abbatutis, l'opera ebbe anche il sottotitolo di Pentameròn o Lo trattenemiento de peccerille; è in dialetto napoletano, con inserite quattro egloghe, che sono altrettante satire: La coppella (gli uomini sono in realtà diversi da quel che paiono), La tenta (sferza l'ipocrisia), La vorpara (condanna l'avidità di guadagno), La stufa (le noie dei piaceri umani). Si racconta la storia di Zoza, principessa melanconica, che non ride mai: un giorno vede da una finestra un ragazzo litigare con una vecchia; questa fa a un certo momento un gesto così volgare e osceno, che la stessa Zoza si mette a ridere. La vecchia allora la maledice e le dice che non avrà più pace fino a che non sposerà il principe di Camporotondo; così la principessa si mette in viaggio con tre oggetti incantati e finalmente trova il principe, che è in catalessi, dentro una tomba con accanto un'anfora: solo se l'anfora si riempirà di lacrime, Zoza potrà svegliare il principe; ma a metà dell'opera Zoza si addormenta. Ne approfitta una schiava, che colma il vaso di lacrime: il principe si sveglia e la sposa. Grande è la disperazione di Zoza, la quale con l'aiuto di uno degli oggetti incantati riesce a infondere nella moglie del principe un incontenibile desiderio di sentire raccontare favole; vengono invitate alcune vecchie narratrici; l'ultimo giorno si presenta anche Zoza, la quale rivela la vera storia e riesce così a sposare il principe. Cinque sono le giornate delle favolatrici, ciascuna composta di dieci novelle. Considerata dai fratelli Grimm una bella raccolta di favole, il Pentameròn è la vera espressione della voce del popolo. Si ispira evidentemente alla raccolta di novelle (Decameron) di Boccaccio, ma con alcune differenze: le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, tra cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici (Zeza è sciancata, Cecca storta, Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, ecc.).
Più che novelle, le storie narrate da Basile sono fiabe tratte in genere dalla tradizione popolare, che l'autore trasforma però in prodotti letterari, con l'uso di un dialetto più colto di quello effettivamente parlato e con l'inserimento di notazioni ironiche e commenti moralistici.Infine la scelta di scrivere in lingua napoletana corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi."
Se si vuole completare il discorso su G. B. Basile e saperne di più,  qui  c'è tutto il discorso critico interessantissimo scritto da Michele Rack .

venerdì 17 maggio 2013

La vita è breve ... amate i vostri figli

La mia amica Ale me l'ha ricordato con le parole di Mother, il capolavoro di John Lennon. 
A me hanno fatto venire i brividi, non so a voi.


     MOTHER
(John Lennon)


Mother, you had me, but I never had you 
I wanted you, you didn't want me
So I, I just got to tell you
Goodbye, goodbye

Father, you left me, but I never left you
I needed you, you didn't need me
So I, I just got to tell you
Goodbye, goodbye

Children, don't do what I have done
I couldn't walk and I tried to run
So I, I just got to tell you
Goodbye, goodbye

Mama don't go
Daddy come home

     MAMMA

(trad. CleReveries)
Mamma, tu mi hai avuto, ma io non ho mai avuto te.
Io volevo te, tu non mi volevi.
Così devo, devo solo dirvi,
Addio, addio.

Papà, mi hai lasciato, ma io non ti ho mai lasciato.
Avevo bisogno di te, tu non avevi bisogno di me
.
Così io, io devo solo dirvi.
Addio, addio.

Bambini, non fate quello che ho fatto io.
Non sapevo camminare e ho provato a correre.
Così io, devo solo dirvi
Addio, addio.

Mamma, non andare
Papà, torna a casa.

Mamma, non andare
Papà, torna a casa.

mercoledì 27 marzo 2013

UN'ALTRA FILASTROCCA


immagine da google
 CAPA PELADA
Questa è della tradizione popolare milanese: la vecchia  Capa Pelada. Per magia del grande maestro Gorni Cramer  che la riprese, diventò Crapa Pelada. L'arrangiò facendola diventare nel 1936 un celebre e fantastico motivo jazz-swing.In quel periodo, il Fascismo, era proibito suonare ritmi americani con testi in lingua straniera. I musicisti italiani, bravi e creativi come sempre, non si perdettero d'animo componendo ugualmente testi della nuova tendenza. Ma era un'impresa molto ardua. La censura, ubbidendo a regole assurde, rovinava tutti i nuovi testi con tagli ed adattamenti che trasfiguravano tutta l'opera. Perciò di questo periodo su musiche bellissime abbiamo testi sciocchi o senza senso.Gorni Cramer, celebre direttore d'orchestra e geniale compositore, da giovane si servì di questa conosciutissima filastrocca - scioglilingua recitata da sempre dai bambini milanesi, notò che si adattava benissimo alla sua musica ed ebbe un grande successo. Inizialmente solo nelle aree in cui si parla il milanese, ma poi negli anni '50 trasmesso molto spesso in televisione fu conosciuto da tutti. Notate che nell'originale si parla di un uomo calvo, per evitare la censura dientò una capra pelata creando un nonsense. Pensate un po' chi poteva essere il 'Capa Pelata' per antonomasia nel 1936?


Questa è la filastrocca, la traduco in italiano, confidando nella accettabile traduzione di Google per gli amici stranieri,  che se non è comprensibile me lo facciano sapere, provvederò con una traduzione in inglese.

Capa Pelata

Capa Pelada l'ha fa' i turtei
Testa Pelata fa i tortelli
Ghe ne dan minga ai suoi fradei, oh-oh-oh-oh.
Che non dàper niente ai suoi fratelli
I suoi fradei fan la frittada
I suoi fratelli fanno la frittata
Ghe ne dan minga a Capa Pelada, oh-oh-oh-oh-oh.
Che non danno per niente a Testa Pelata

Capa pelada l'ha fa' i turtei
ghe ne dan minga ai suoi fradei.
I suoi fradei fan la frittada
ghe ne dan minga a Capa pelada.

Capa pelada l'ha fa' i turtei
ghe ne dan minga ai suoi fradei, oh-oh-oh-oh.
Capa pelà, Capa pelà, Capa pelà, Capa pelà, Capa pelà.
Badabaddà badabbadà badabba babbarara pirulirulirulirulì
Capa pelà, Capa pelà, Capa pelà, Capa pelà, Capa pelà.
Paaaaaaa pararappappa pappa paraparapà.



giovedì 21 marzo 2013

UNA FILASTROCCA

immagine da Google-mamma.pourfemme.it 
Le troviamo in tutte le lingue e i linguaggi, ma cosa sono le filastrocche?
Sono detti popolari in versi, canzoncine con un senso logico o  anche senza logica che in passato venivano imparate a memoria e recitate da grandi e piccini. Rappresentazioni di scenette di vita povera, di quotidianità semplice e genuina in cui la fede si scontra con la miseria. Una risata sonora o un'espressione sguaiata, sempre valida per l'epilogo di uno scherzo, era la consueta conclusione. 
In un passato recente sono state molto presenti nei giochi dei bambini. Risuonavano per le strade o ai giardinetti. Erano usate nelle conte per l' assegnazione dei ruoli o delle penitenze nelle attività all'aperto. Questa filastrocca la conosco in molte versioni, ma in siciliano mi è sembrata più allegra. 
Rosa Balistreri ne ha messe insieme tre. Sono quadretti di vita   inimmaginabili per noi. Chi le cantava in origine si rivolgeva ai bambini e intonando questi canti dal ritmo monotono, incalzante e sonnolento coglieva l'occasione per dar sfogo alla sua rabbia per motivi famigliari o politici. Erano imparate a memoria e cantate nei vicoli, nelle "gnostre" o chiostri, oppure nelle corti. I protagonisti erano normalmente animali umanizzati e, come nelle fiabe, su di loro si scatenava tutta l'ironia liberatoria del ceto basso. Successivamente, hanno perso la funzione primitiva di divulgazione. A noi le parole dell'ultima sembrano messe a caso perchè col tempo è svanita l'allusione politica o sociale ed è rimasto un testo senza senso o addirittura crudele. Ma noi le cantavamo nella conta e nessuno rifletteva su quello che si diceva. 
Forse molti la capiranno, ma per i pochissimi che proprio non ci riescono e per gli amici di lingua straniera che mi seguono, l'ho tradotta.
Vedete un po'  anche voi se ne ricordate almeno una, per me è il ricordo di una colonna sonora di un'infanzia passata all'aria aperta!


Testo della filastrocca cantata nel video

Piove, piove, piove,

It rains, rains, rains,
La gatta fa le prove.

The cat is rehearsing

Il topo con la coppola di seta si sposa,
The mouse with a  silk  cap is getting marry,
Esce la cognata con la veste ricamata,
His sister in law with her embroidered robe is coming out ,
Il Signore esce e fa spuntare il sole!

God comes out and lets the sun appear!
Esci, esci sole per il Santo Salvatore

Oh sun,come, come out  for the Holy Savior sake
E con un pugno di nocelle fai felice i bambini,

And with a handful of hazelnuts make happy the children,
Con un pugno di soldi  fai felice le persone,

With a handful of coins make people happy,
E con un pugno di "fumere"
And with a handful of "fumere" 
Fa felice le cameriere!

Make happy the housemaid!

Nuvolette piovete, piovete (little clouds rain, rain, please),
Oh little clouds rain , rain  please,
Perchè la terra è morta di sete,
Because the earth is dying of thirst,
E se non ci mandate l'acqua , siamo persi e distrutti.
And if you do not send us the water, we are lost and destroyed.
L'acqua del cielo sazia la terra la riempie di pietà

The water from the sky glut the ground  filling it with compassion
Le nostre lacrime cadono per terra
Our tears fall to the ground
E Dio ci fa la carità!

And God is kind with us!

Mani, maninuzze che sta venendo papà,

Hands! Oh, pretty little hands, dad is coming,
Porta cose, e se ne va 
He takes good things, and then leaves,
Porta mandorle e nocelle per rallegrare i piccini

He takes almonds and hazelnuts to cheer children up
Porta mandorle e fagioli
He takes almonds and beans
Per le mamme ed i figlioli.

For mothers and children.

Domani è domenica tagliamo la testa a Menica.

Tomorrow is Sunday let's cut the head to Menica.
Menica non c'è,
Menica isn't here,
Tagliamo la testa al re.

Let's cut the head of the king.
Il re è malato,
The king is sick,
Tagliamo la testa al soldato.
Let's cut the head to the soldier.
Il soldato è alla guerra:
The soldier is at war:
Ci sediamo col (our) culo per terra!
Let's sit with our ass down!




sabato 15 dicembre 2012

Povertà, talento, amore, tanta voglia di musica e normalità... e immondizie.

"IL MONDO CI MANDA I RIFIUTI NOI GLI RIMANDIAMO LA MUSICA "
Favio Chavez, direttore d'orchestra
Solo il video è un manifesto completo dell'amore per la musica, unica alternativa di evasione nella consapevolezza dei propri valori e nobili attitudini di un popolo sfortunato che a fatica riesce a dare speranza ai suoi giovani.
Una sintesi della tenacia, della inventiva, della passione di giovani molto poveri che hanno  fiducia nei "doni" che gli vengono offerti, meglio dati con arroganza sotto  forma di rifiuti.
Sì, noi mandiamo le immondizie e loro ricambiano offrendoci con molta eleganza e grazia la musica di un'orchestra che con magia e solo amore per la Vita, quella con la V maiuscola, riesce a coinvolgere l'intero mondo!
Il video è il trailer del  film documentario lungometraggio " Paraguay Landfill Harmonic"  che uscirà nel 2014.
( N.B. il video è stato oscurato, ma  è possibile vederlo direttamente da You Tube cliccando qui  :D)



Sono ragazzi, direi bambini,  come tutti alla loro età hanno solo ideali e sogni. 
Loro però, devono mettere in atto tutta la loro inventiva per dare valore alle loro misere risorse per non soccombere. 
A Cateura in Paraguay, una baraccopoli tra i rifiuti provenienti da tutto il mondo, l'amore per la musica è stimolo vitale per i giovani. Se non fosse per l'attaccamento alla vita della loro orchestra, non è esagerato dirlo, verrebbero sopraffatti dalla miseria interiore: a loro è garantito solo lo squallore dei nostri rifiuti come unica risorsa economica oltre alle tentazioni della delinquenza. 
Anna Maribel Rios Bardados, di 13 anni, violinista è orgogliosa del suo violino riciclato. 
Un'altra ragazzina dice di sentire le"farfalle nello stomaco" quando ascolta il suono di un violino, è una sensazione che non sa spiegare... 
Per un'altra ancora la sua esistenza non avrebbe senso senza la musica.
Juan Manuel Chavez, di 19 anni, suona il violoncello, ed è anche lui orgoglioso del suo strumento fatto col legno di scarto, una lattina di olio vuota, vari utensili da cucina, tra cui addirittura un attrezzo per fare gnocchi,  tutto raccolto dal cumulo dei rifiuti.
"In una comunità come Cateura", dice il loro maestro. "non si potrebbe mai avere un violino perchè costa quanto una casa, quindi lo si rimedia dalla massa di rifiuti che ormai fa parte del loro panorama.
Ormai quello di selezionare i rifiuti per poi venderli è diventato il lavoro di tutte le famiglie"
L'ideatore costruttore degli strumenti dice che non avrebbe mai immaginato di costruire strumenti come quelli usati dai componenti dell'orchestra, ed è felicissimo nel vedere un bambino suonare un violino riciclato.
Continua dicendo che  è una esigenza umana segnalare questo miracolo a tutto il mondo. Che così la gente si rende conto che non dovrebbe buttare i rifiuti senza curarsene.... non dovrebbe buttare via anche la gente....!!!

Diffondere la loro storia che sa di favola mi sembra un dovere, un omaggio a chi sogna, ama la musica, ha solo quella e vive con il suo talento.


venerdì 27 aprile 2012

PERCHE’ LA GUERRA?



Non ce lo ha mai detto direttamente, ma noi lo sapevamo, sapevamo tutto di lei.

Quando parlava con le sue amiche noi eravamo sempre con lei, molto spesso stavamo lì per curiosità, o per “educazione”, cioè era la buona educazione che lo imponeva.
Era interessante conoscere le banalità quotidiane delle famiglie delle sue amiche. A quei tempi, noi non avevamo la televisione così gli spettacoli ce li facevamo da soli. Ci erano utili quei momenti, attingevamo da lì le battute per gli sketch del nostro cabaret privato.
Nei momenti in cui i loro discorsi si facevano più interessanti, o meglio, più importanti per noi, mia madre improvvisamente ricordava di aver dimenticato una commissione o un accidente qualsiasi e con urgenza venivamo allontanate per uscire e svolgere il suo compito.
Proprio quella mancanza di garbo ci insospettiva tanto: era tutto chiaro. Sapevamo bene, e già da molto tempo, che era giunto il momento per levarci di torno, ci alzavamo senza batter ciglio. Facevamo finta di uscire, sbattevamo le varie porte, ritornavamo indietro in punta di piedi e ascoltavamo
 in silenzio.
Erano quasi sempre le stesse storie piene di sospetti tradimenti, presunte tresche, insomma, quello che ora liberamente circola sui nostri rotocalchi e in certi talkshow televisivi.
Da loro ho sempre saputo dell'esistenza di "festini", "party a luci rosse" e relazioni omosessuali, tutto studiato poi 
a scuola nelle biografie di scrittori e poeti illustri  o letti nei romanzi d'autore messi all'indice.

Perciò noi sapevamo sempre tutto!
Non ho mai capito come riuscisse a mantenere la sua ferma autorevolezza di mamma e la sua amichevole complicità col suo gioioso modo di considerarci sue amiche.
Con noi forse, anche lei scopriva il mondo. 

Era molto ingenua, nelle conversazioni "proibite" che ascoltavamo la sentivamo ripetere, con voce sinceramente incredula:"Ma no !? non è possibile, sono esagerazioni o fantasie di gente poco seria e cattiva, non si può credere a certe volgari fantasie. No, non dobbiamo crederci!"

Lei era ancora una ragazzina, aveva avuto la sua prima figlia a diciotto anni, (a quei tempi ci si sposava quasi adolescenti) e si era anche in un periodo in cui si doveva credere che i bambini nascevano sotto il famoso "cavolo" e avere un amichetto, cioè amico maschio piccolo, non era del tutto "per bene".


Aveva seguito suo marito in una città molto diversa dal luogo in cui aveva vissuto. Ci era arrivata un anno prima che iniziasse la seconda guerra mondiale e Napoli con la sua gente così viva ed allegra l’aveva conquistata subito.
Non aveva mai smesso di amarla, aveva 
sempre ammirato quel luogo di estrema bellezza, quella Via Caracciolo frequentata dai grandi personaggi, artisti, poeti, scrittori che si incontravano e si fermavano con la gente comune. Spesso raccontava  del grande Benedetto Croce, quel signore anziano che veniva a sedersi sulla sua panchina e giocava con noi come un semplice nonno e con lei si soffermava sulle cosiderazioni sociali del momento.
Ammirava quella gente che sapeva soffrire la fame, gli stenti con serenità, e nella distruzione e nel caos era sempre piena di speranza e orgoglio per un passato ricco di cultura e arte.


 La guerra crudelmente stava sgretolando tutto sotto i loro occhi, ma non si erano mai arresi.
I bombardamenti continui sulla città non impedivano ai napoletani rinchiusi nei ricoveri sotterranei di continuare a vivere e a sognare.
Lì sotto c'era tutto il quartiere che continuava a vivere, anche senza vedere il sole o sentire la brezza del mare. Le sue attività consuete animavano quel luogo squallido e affollato. Nella promiscuità assoluta ognuno dimostrava una apparente noncuranza per ciò che accadeva fuori.
C’era chi cantava le sue composizioni chiedendo il parere dei presenti, chi intonava motivi famosi, chi recitava poesie, chi dava lezioni di musica o canto e qualcuno anche quelle delle materie scolastiche: era "o professor". Molti svolgevano normali attività manuali, le donne lavoravano a maglia confrontandosi o si scambiavano pareri e consigli tecnici. C'era anche chi spettegolava, chi litigava e chi dormiva. I bambini tranquillamente facevano la loro solita vita. 

Tutto questo ce lo raccontava sempre, forse sapeva che non lo avrebbe mai dimenticato.
Ma ciò che le accadde quel giorno non ha avuto mai la forza di dircelo, di dircelo guardandoci negli occhi...

.....sì quel giorno aveva fatto tardi. Si era avviata all'ultimo segnale dell'orribile sirena che avvertiva dell'arrivo degli aerei con le loro bombe che mettevano in forse le sorti delle abitazioni lasciate così..scappando via senza un attimo di esitazione.
E sì che aveva sentito alla radio il temutissimo "Maria che si prepari" di Radio Londra, sapeva che doveva affrettarsi, essere veloce come il vento perchè c'erano molte probabilità di non farcela. 

Con una neonata e un'altra bambina di tre anni era proprio difficile prevedere tutto e prepararsi  per essere pronti a scappare.
Quella volta non ce la fece. Aveva affidato la maggiore delle mie sorelle con tutto il necessario di sopravvivenza ai suoi amici, le davano sempre una mano e tanto coraggio, così lei era rimasta a sistemare l'altra piccola di pochissimi mesi.

Era scesa giù con la bimba abbracciata forte a lei sotto la sua pelliccia, ormai diventata la sua seconda pelle, la indossava per quelle dannate corse due o tre volte al giorno e la teneva su ore ed ore laggiù in quella strana bolgia,  fino all'annuncio dello scampato pericolo.
Aveva sentito il frastuono degli aerei che si avvicinavano col loro carico di morte ed avanzavano a volo radente sparando all'impazzata.

Si era buttata giù per terra, appiattendosi sotto il marciapiede di una strada principale di Napoli tenendo la sua bimba stretta stretta a lei, pregava aspettando Sorella Morte.
Guardando verso il cielo vide "l'alleato americano", un ragazzo anche lui, ubriaco fradicio che sghignazzava e urlava a squarciagola. L'aveva presa di mira e sparava contro di lei preso dalla furia della sua esaltazione, divertendosi in modo scellerato, senza fortunatamente colpirla.
Stette lì immobile finchè l'altro non ritenne opportuno smettere con lei forse per cambiare divertimento.

Quando fu finita quell'incursione si alzò incredula per ciò che aveva vissuto e ancora con l'immagine di quel ragazzo che giocava con la sua vita e quella di sua figlia divertendosi e sollazzandosi, si avviò nella devastazione totale che la circondava.

Raggiunse gli altri, riabbracciò finalmente la sua piccola che aveva temuto di non rivedere mai più e tra l'affetto e le coccole di quella "gente tutto cuore" riprese la vita di sempre. 


Forse mia madre non ha mai dimenticato, ma anche noi non abbiamo dimenticato, anzi per me la sua disavventura è stata la ragione del mio odio per la guerra.
Lei non ci aveva detto niente, non aveva coltivato l'odio per quel soldato sciagurato  perchè sapeva che così è la guerra!


LA PAROLA GUERRA MI FA INORRIDIRE. COLPISCE PROFONDAMENTE SOLO GLI INNOCENTI ED ESALTA I MALI DELLA TERRA.


E' ancora e sempre così, lo dicono anche i versi di questa poesia che mi ha fatto pensare a lei .


LANCIANO BOMBE E SORRIDONO
(di Gladys Basagoitia n. a Lima, Perù nel 1935 residente a Perugia) 

Accaniti
armati fino alla punta dei capelli
fino al filo dei denti
in nome della pace lanciano l’amo e l’esca
latte in polvere
farina
medicine scadute
lanciano bombe e sorridono
sperando che i bambini uccisi
prendano il latte dai seni assassinati.






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p.s.:
Grazie per essere passati, 
Se avete gradito questo post, perchè non votare qui?

Ve ne sarei molto grata
GRAZIE


domenica 18 marzo 2012

CARI PAPA'

...forse non ci avete mai pensato, ma...


ci sono tante piccole attenzioni che noi grandi rivolgiamo ai nostri cuccioli, magari li consideriamo gesti banali e scontati, però sono il cardine su cui ruota la loro vita.
Anche noi ormai diventati grandi, qualche volta ci  siamo sorpresi a dire: "Questo me lo ha insegnato il mio papà", lo abbiamo detto quasi certamente con tanto rimpianto e nostalgia per le manifestazioni di affetto ricevute allora. Certamente non sono state dimenticate ma sicuramente tutti noi sentiamo ancora molto forte il bisogno di quelle "coccole".
Non ho voglia di ripetere quanto ho già detto in un altro post dedicato a quella figura che è sempre impressa nel nostro cuore. Mi devo fermare: rischio di essere patetica, se proprio lo vorreste leggere è qui.
Vi racconto solo quello che mi ha detto poco tempo fa mia figlia.
S. ormai adulta, ma sempre molto affettuosa e piena di premure per il suo papà (anche per la mamma, a dire il vero), nell'allacciarsi le scarpe ha detto: "Vedi, questo me lo ha insegnato papà, tu non eri capace,  come le annodi tu, io non ci riuscivo, lui sapeva farlo meglio, lui sì che mi capiva e mi capisce!"
Sono tornata indietro nel tempo. L'ho rivista piccina, con le scarpette rosa coi lacci come quelle dei "grandi", con suo padre che le insegnava delle manovre per lei molto importanti che sua madre non era capace di insegnarle. Mio marito, lì chino su di lei tutto complice e sorridente, giusto per coinvolgermi scherzosamente,  le aveva detto: "Sì, le mamme, si danno un sacco di arie, ma non capiscono niente!"
Lei aveva aggiunto: "Sono i papà che sanno fare bene le cose!

....e del mio papà cosa posso dire?

Lui sì che sapeva come si legge l'ora!
Avevo appena imparato i numeri, gli stavo intorno e come al solito mi interessavo del suo inseparabile orologio. Una "cipolla da tasca" comprata quasi un secolo fa, col suo primo stipendio,  e da cui non si era mai separato, (e non lo fece mai, fino al giorno in cui dovette separarsi da tutte le cose di questo mondo).
Non mi rispose esprimendosi vagamente e un pochino infastidito come faceva di solito. Forse aveva capito che era arrivato il momento giusto, o anche per accontentarmi finalmente. Con un tono di voce solenne, ma particolarmente dolce che ancora ricordo, con molta calma e chiarezza,  cominciò a spiegarmi il funzionamento del magico strumento.
Ed io questo momento non l'ho mai dimenticato!

Cari papà, mia madre non lo sapeva fare, era sempre molto nervosa per gli innumerevoli compiti e doveri materni a cui badare, d'altro canto,come tutte le mamme e le mogli. Ma voi non perdete questi momenti memorabili, sono tali per loro, vostri cuccioli, ma sono preziosi e impagabili anche per voi!!!

...... e del vostro papà cosa potete dire?




Scarpette come quelle di S
le vendono ancora!!

La cipolla come quella del mio papà
 (questa è di http://www.arsantik.com.).
La sua, un' Omega, ha una catena di acciaio.
La custodisco ancora io ed è perfettamente funzionante !!