"rascel

«Io prendo manciate di parole e le lancio in aria; sembrano coriandoli, ma alla fine vanno a posto come le tessere di un mosaico».
(Renato Rascel)

giovedì 25 aprile 2013

25 aprile: "LA LIBERAZIONE"

... scusatemi, ma io non mi sento proprio libera!

... si era partiti così, e si aveva tanta speranza di riuscire ad essere finalmente liberi!



... ora abbiamo solo ricordi di nonni come questi, coraggiosi, pieni di amore e di speranza !
A me non bastano, non si può vivere di ricordi.
Ho bisogno di concretezze e positività!


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Ecco il testo, lo riporto per i miei amici stranieri, (anche se non mi fido troppo del traduttore di Google)

QUEL 25 APRILE
scritta da Stefano D'Orazio dei Pooh

Quel 25 aprile
la guerra era di casa
pioveva forte fuori dalla chiesa.
La fame era nell'aria,
la vita una scommessa
ma il prete continuava la sua messa.
Tu col vestito bianco,
tu con le scarpe nuove,
vi siete detti si,
davanti a quell'altare.
E insieme per la vita
vi siete incamminati
tra il tempo, le promesse e le speranze.
La guerra che finiva,
i balli americani,
l'Italia da rifare con le mani.
I 10 alla schedina
i figli all'improvviso
la casa troppo stretta
e io che crescevo troppo in fretta.
Ma dimmi come si fa
a stare come voi
insieme per la vita;
che a me, l'amore quando c'è
mi sembra sempre fuoco
e invece dura poco.
Sarà che anime di razza
è un po' che non ne fanno più.
Quel 25 aprile
ritorna tutti gli anni
e tutti gli anni vi ritrova insieme.
Avete visto il mare
e il secolo cambiare
il papa buono e l'uomo sulla luna.
C'è chi vi chiama nonni
e che c'ha già vent'anni,
è il tempo che trascorre ma non passa.
Tu col capelli bianchi,
tu con gli occhiali nuovi,
vi dite ancora si
davanti al piatto di ogni giorno.
Ma sarà fatalità,
fortuna o che ne so
ma siete ancora insieme.
E sembra amore nato ieri
e invece sono già
cinquanta primavere.
E noi con tutto da imparare
siam qui a improvvisare amore.
Quel 25 aprile
pioveva e gli invitati
dicevano "Che sposi fortunati".

sabato 20 aprile 2013

"CORE ANALFABETA"




da Google Immagini qui

Stu core analfabbeta
tu lle purtat a scola,
e s'è mparat a scrivere,
e s'è mparat a lleggere
sultanto na parola:

"Ammore" e niente cchiù.



  
 ehh sì, correva l'anno 1969     
quando il mio cuore ha
 imparato  a leggere.


Core analfabbeta

Dal film "Siamo Uomini o Caporali"
Versi e musica di Antonio De Curtis in arte Totò



Stu core analfabbeta 
tu lle purtat a scola
e se mparat a scrivere,
e se mparat a lleggere
sultanto 'na parola:
Ammore
e niente cchiu'


Ammore,
ammore mio si tu, femmena amata.

Passione, 
passione ca a sta vita daie calore. 
Quann te vas a vocca avvellutata,
chistu vellut m'accarezza 'o core,

stu core, ca tu pa' man lle purtat a scola,
e se mparat a scrivere,
e se mparat a legger...

Ammore e niente cchiu'. 

Stu core analfabbeta
mo soffre e se ne more 
penzann ca si femmena 
e te putesse perdere 
e perdere ll'ammore 
ca lle mparat tu. 
Giùrem ancora ca tu si mia 
primma ca me ne moro 'e gelusia. 

Passione, 
suspir 'o core mio femmena amata, 
tu lle mparat a scrivere, 
tu lle mparat a leggere... 

Ammore e niente cchiu'. 



Bei versi, vero?

Meritano una traduzione italiana, non tutti conoscono il napoletano.

Eccola:

Cuore Analfabeta
(tradotta da Cle Reveries)

Questo cuore analfabeta
tu lo hai portato a scuola
e ha imparato a scrivere,

e ha imparato a leggere
soltanto una parola:
Amore
e niente più.

Amore,
amore mio sei tu, donna amata.
Passione,
passione che dai calore a questa vita. 
Quando ti bacio la bocca vellutata,
questo velluto mi accarezza il cuore,
questo cuore, che tu hai portato a scuola per mano
e ha imparato a scrivere
e ha imparato a leggere...

Amore e niente più.


Questo cuore analfabeta
ora soffre e muore
al pensiero che sei donna
e ti potrebbe perdere
e perdere l'amore
che gli hai insegnato tu. 

Giurami ancora che tu sei mia,
prima che io muoia di gelosia.

Passione,
donna amata, sospira il cuore mio,
tu gli hai insegnato a scrivere,
tu gli hai insegnato a leggere...

Amore e niente più

Ho ricercato un po', ma ne è valsa la pena.
Guardate cosa ho trovato:

giovedì 18 aprile 2013

I "MIEI" GATTI

Un sosia di Pussy da google
...e sì, lo confesso anch'io amo i gatti!
Non tanto i domestici, ma i randagi.
Mi "hanno adottata", sono nostri ospiti durante le vacanze e vengono a farmi visita in campagna dove passo i mesi estivi, mentre loro sono padroni assoluti d'inverno.
Il primo ad iniziare la tradizione e ad entrare in confidenza con noi, fu Pussy.
Avevamo in comune una crisi d’abbandono da smaltire e questo favorì l'incontro.

Era una mattina di settembre, i miei ragazzi erano partiti il giorno precedente, le loro ferie erano finite, mi mancavano tanto e questo mi metteva un magone immenso.
Lui era arrivato mentre rientravo dopo aver chiuso il cancello, avevo accompagnato mio marito che faceva una capatina in città.
Piccolissimo, una palletta dorata, desideroso di una nuova famiglia. Era evidente, ci avevano giocato per tutta l’estate e poi lo avevano abbandonato.
Essendo allergica al pelo degli animali, avevo cercato di allontanarlo, ma lui niente, aveva deciso. Noi eravamo meritevoli della sua compagnia, non c'era nulla da discutere.
Lo avevamo nutrito e dato affetto per due anni. 
Pussy non ci lasciava un attimo, era gelosissimo e se venivano a farci visita altri gatti li aggrediva.
Ancora piccolo, si era trascinato dietro una gatta con i suoi micetti dietro. Ce li ritrovammo a primavera che giocavano in un angolino del back garden tra il fico e il corbezzolo che strategicamente li proteggevano dagli eventuali pericoli.
Dapprima timidi e paurosi, poi più fiduciosi e più giocherelloni.
Erano cinque micetti, la loro mamma e un'altra gatta che dava una mano ad accudire la famigliola. Pussy che già li conosceva, li aveva accettati e divideva con loro il suo territorio.
Poi un brutto giorno, per l'arrivo di strani "vicini", tipi che a modo loro amavano gli animali, è ritornato agonizzante, sbranato dal loro dobermann.

Lo abbiamo perduto, ma noi non siamo più rimasti soli.
Dei cinque micetti adesso ne è rimasta una, gli altri li abbiamo visti morire nel nostro giardino avvelenati e non sappiamo chi sia stato.
Ora è nostra ospite padrona la superstite del gruppo, la mamma di Douce e di Kitty e forse altri micetti che avrà "sfornato " chissà dove e che tra poco li vedremo con loro. 

Facendomi compagnia, sempre a debita distanza, insegnandomi cos'è il rispetto e l'amicizia, è come se mi ringraziassero donandomi la loro cortese e deliziosa presenza. 
Si fermano in giardino e ci osservano.
Molto spesso giocano tra loro rincorrendosi o improvvisando lotte e simpatiche azzuffate o semplicemente aspettano l’ora di pranzo.
Mi regalano le loro prede (immaginate un po’ cosa possano essere) forse per riconoscenza alle nostre coccole "alimentari" e alla nostra protezione o soltanto perchè ci vogliono bene.
D'inverno andiamo a trovarli e se non sono nel nostro giardino, dopo pochi minuti arrivano di corsa a salutarci e a svuotare il loro piatto pieno di cibo adatto a loro.
Miagolando tranquillamente sembrano intrattenerci finché non andiamo via, fiduciosi ci  seguono in tutto ciò che facciamo sempre a debita distanza, difendendo così la loro riservatezza di randagi che noi assecondiamo con affetto.



domenica 14 aprile 2013

... per i miei amici vegani e per chi ama i sapori di una volta, ecco un dolce del nostro passato: le pitteddhe salentine.

Sono bellissime, vero?
Le hanno preparate e fotografate Daniela e Letizia del blog "Spizzica in Salento".
-o-o-
Queste chicche sono autentiche squisitezze! Sembrano proprio studiate per chi ha adottato una dieta priva di carne e dei  suoi derivati.
Sono graziosi canestrini fatti con una pasta frolla povera, solo farina di grano duro 00, olio extra vergine d'oliva, succo d'arancia e marmellata d'uva, alias la "mustarda", fatta in casa dalle stesse contadine che nei secoli si sono tramandate questa ricetta. 
Lo zucchero!?...... non l'ho dimenticato, non si mette proprio, ma se volete potete tranquillamente metterne un poco.
Chi prepara dolci sa benissimo quanto la nostra cucina moderna debba al burro, alle uova e al latte. Sembra impensabile poterne fare a meno ed avere un gran successo oltre a soddisfare le esigenze dei più golosi.
Nel nostro passato l'amore di gente povera per una terra difficile ma che sapeva dare tanto a chi a sua volta l'amava, ha fatto avverare il miracolo. Erano i dolci delle grandi feste delle famiglie contadine, preparati dalle mani fatate delle donne, mogli, mamme, contadine e factotum. Mani che senza posa, si prodigavano nei campi per la raccolta del tabacco in estate e degli altri frutti in tutto il resto dell'anno. Ma quelle mani sapevano anche muoversi abilmente con l'uncinetto o i sottilissimi aghi e i telai per confezionare trine e ricami e tele per i famosi corredi per sè stesse, se erano ancora zite, cioè signorine, o per le loro figlie o anche su commissione per arrotondare il bilancio domestico.
Nel periodo prenatalizio e prepasquale c'era un'atmosfera particolarmente gioiosa e in tutte le case le nostre donne abbandonavano i lavori nei campi e tutte le altre occupazioni, e si dedicavano alla preparazione di pitte e pitteddhe. Era il tempo in cui il panettone e la colomba erano sconosciute, non avevano ancora il posto d'onore sulle tavole salentine, e le pittehe con le pitte con tutte leccornie tradizionali, troneggiavano allegramente imbandite per le feste. Così, anche a Carnevale e alle feste in famiglia, come il battesimo o battezzo, la festa di fidanzamento o trasitura, lu santu patrunu e tutte le altre ricorrenze solenni non potevano mancare.
Ora sono ottime, secondo me, anche ogni giorno a colazione e al "five o' clock tea" o quando volete farvi delle coccole al palato.
Vi prego di scusarmi ma non ho una mia ricetta, non mangio dolci e queste non sono nella mia tradizione. 
Potete attingere la ricetta direttamente dal sito delle bravissime e stupende Daniela e Letizia del blog "Spizzica in Salento".Vi assicuro siete in ottime mani.
... ed insieme alle pitteddhe ci andrebbe anche "nu pocu de mieru", attenzione non "vinu", ma "mieru". Mi spiego meglio: non vino qualsiasi, magari annacquato, ma vino di quello buono buono! 
Qui è tutto virtuale e non ci sono bicchieri, ma questa canzone popolare mette allegria quanto un bicchiere di quello buono...
.... e   prosit !


giovedì 11 aprile 2013

Quando si è poveri?

E' da questa mattina che mi pongo questa domanda a cui non riesco a dare una risposta che vada bene, cioè da quando ho letto la poesia di Neruda "La povertà" che riporto  alla fine del testo.
Vivendo in un periodo in cui si parla molto  di recessione globale e di povertà sempre più dilagante, mi sono resa conto di aver sinceramente perduto il senso ed il significato di questa atavica situazione.
La povertà, sì che la conosco. Per fortuna indirettamente. L'ho vista furoreggiare con la grande indigenza in cui si era tutti nel dopoguerra.
La percepivo quotidianamente nel vedere le privazioni a cui erano sottoposti i miei coetanei. Negli occhi lucidi della povera donna che veniva a chiedere a mia madre  piccole somme in prestito 
il lunedì e ritornare per restituirle il sabato e ripetere il rito nuovamente il lunedì successivo. Nell'andirivieni delle povere giovanissime mamme che bussavano alla nostra porta per sentire consigli incoraggianti da mia madre. Una persona disponibile, diventata suo malgrado, punto di riferimento del vicinato che non lesinava comprensione e sapeva ascoltarle. Rappresentava la sorella maggiore che  quelle giovanissime donne avevano sempre desiderato avere. Erano ancora ragazzine, 17 o 18 anni, e già un  carico domestico difficilissimo. Sposate, con un marito anche lui  giovanissimo, e  almeno un figlio con tutte le esigenze dei bambini piccoli. Mia madre riusciva a confortarle e a darle un supporto morale con suggerimenti adeguati ai loro affanni del momento. Sulle incertezze per la  loro prima gestazione o sui loro figli che facevano le normali richieste di tutti i bambini. Ah, dimenticavo proprio quello che a noi figlie dava più fastidio e che disapprovavamo e le rimproveravamo sempre: le iniezioni e l'assistenza ai parti. Lei si giustificava dicendoci che quella gente non avendo soldi per medici e personale tecnico adeguato, si sarebbe trascurata compromettendo il proprio stato di salute.
La povertà, anzi la miseria, l'ho sentita ancora nelle urla disperate della mamma di Riccardina, mentre piangeva sulla bara della sua figlioletta. La mia compagna di giochi era morta di tetano e  per me, che avevo giocato con lei il giorno prima, sicuramente è stato un vero shock, è stato anche il primo incontro con la morte e l'evento più amaro della mia vita. Non dimenticherò mai quello che diceva, quella donna così infelice. Quando ci penso mi sembra realmente inconcepibile per noi. Quella mamma nello strazio  assoluto ricordava quanto bene le avesse voluto e come avesse sempre accontentata in tutte le richieste della sua bimba.Un vero dramma!
Quali desideri aveva avuto in vita la bambina? e quali le sue richieste? Un giocattolo o un vestitino, rispondereste voi. No-o! Solo pane con lo zucchero! Ma, non è per noi assurdo? Vi assicuro questo l'ho vissuto realmente ed è stato sentito dalle mie orecchie.
Vivendo episodi simili, la mia generazione ha vinto la sfida con la povertà minacciosa che le faceva terrore, ma l'ha sempre guardata con dignità e una incoraggiante fiducia.
Avevamo dei modelli di vita vissuta ponderatamente  nella speranza di un futuro migliore. C'era una solidarietà umana veramente sentita, fatta di piccoli gesti, piccole confidenze, qualche buon consiglio, poveri prestiti e spontaneo reciproco rispetto.
Una sana risata, una canzone ascoltata dall'unica radio del vicinato o anche cantata, serviva a scacciare lo stress e la depressione.
Era il tempo e il luogo di cui ho parlato qui in questo mio post dell'anno scorso, per me un periodo di grande formazione.
E sì, devo molto a quella gente.
Se confronto quei tempi con i nostri, mi sembra di essere scesa da un'astronave proveniente da un altro pianeta.
Resto sconcertata per l'eccessiva informazione che considero insana e deviante, un vero lavaggio al cervello. Non che io preferisca ignorare tutto quello che accade, ma c'è solo una eccessiva informazione su una realtà che non è facilmente verificabile, punto e basta. Ho la sensazione che  ci sia una mancanza di volontà ad entrare in contatto con chi soffre, toccare con mano la sofferenza e cercare di dare una mano. C'è solo una finzione di empatia con tutti quelli lontani fisicamente (alludo ai numerosissimi talk show) ma esclude chi ci vive accanto, non ci si preoccupa di chi è vicino. Si sentono parole di solidarietà di facciata, frasi che risultano false o senza senso. Forse è dovuto al cambiamento culturale, cioè al sentirsi parte di un gruppo organizzato che si chiama Stato, con la s maiuscola, in cui basterebbe denunciare quello che accade e delegare le risoluzioni dei problemi agli enti preposti dallo stato. 
Negli anni '50 di cui stavo parlando, si aveva tanto bisogno di solidarietà, non quella denunciata ma quella del contatto fisico. Lo Stato pensava a resuscitare dallo sconquasso per arrivare ad un livello alto non  essenzialmente politico-economico ma anche   ideologico. Questo era sentito dai più sensibili e di buona cultura, certamente meno dai cittadini comuni, educati ed abituati a subire come sempre.
Noi, però, siamo cresciuti nella cultura dello stato che deve provvedere ai bisogni dei suoi cittadini, del “cura promovendae salutis”. La richiesta di un po' di pane urlata dal bimbo affamato, da me ascoltata, o meglio non soltanto da me ascoltata, ma da tutto il vicinato, era l'urlo dei nuovi poveri alle istituzioni. La risposta della povera giovane mamma era sempre la stessa, era un rito scontato. Io non riesco a dimenticarla perchè ci coinvolgeva un po' tutti, in altri termini ci vincolava alla solidarietà e al senso umano. 
Come si può dimenticare la reazione disperata di quella donna. Sempre urlando, sconsolata diceva: "Disgraziè, nan stè (piccola pausa ) vae dalla Signoora!". Così finiva quella sorta di dialogo, e dopo un poco "qualcuno" bussava, e appariva lui sulla nostra porta, carino, profumato di pulito, ben pettinato e felice di rivedere noi.  che lo aspettavamo. La "Signora" per antonomasia era mia madre, mai sorda o distratta nel dare una mano a chi non era fortunato come noi. Lei e tutte le altre "Signore" attrezzate solo di una cultura, una saggezza ed il normale senso umano, le sue umili competenze e la solidarietà umana sostituiva quello che ora pretendiamo dallo stato.
Il mio disgusto, scusatemi ma lo devo dire, è tale quando alle richieste di chi chiede aiuto come quel bambino bello ma indigente, si danno risposte simili  a "Ci dispiace poveretti miei non ci sono fondi", e noi intuiamo il seguito, cioè, andate in televisione a chiedere qualche sms di solidarietà. Così ormai ogni settimana c'è la richiesta di un contributo solidale per sostenere enti privati che fanno le funzioni della "Signora", ormai morta, anche come figura. Ora è l'epoca delle strutture Onlus, veri enti riconosciuti ma non sono ben sovvenzionati.
Quello che mi ha messo veramente in crisi questa mattina è stata la lettura della bella poesia e l'ascolto di altre notizie divulgate in questi giorni. Su un manifesto politico, per esempio, ho letto questo:"Il ... è vicino a tutti i cittadini che in questo momento stanno vivendo momenti difficili".
Ora sono veramente perplessa. Quale conforto possono dare a uno che non sa come sbarcare il lunario frasi come questa?
Bene penso che la vera povertà sia proprio nello sconforto per l' inesistenza di una solidarietà più umana e del calore umano che ridona il sorriso e la fiducia nel futuro.
Quando si è poveri, quindi?
Quando ci si sente abbandonati e privi di speranza, quando ci accorgiamo che non c'è nessuno capace di confortarci e scuoterci dallo sconforto con l'amore per il prossimo, quello che si deve e che è lo stesso che vogliamo noi dagli altri, umile ed umano.
Gustate la delicatezza di questo Neruda, almeno ci si confronta con i nostri sentimenti più belli e sulla schietta fiducia nella vita.
La povertà
(Pablo Neruda Parral, Cile 12/7/1904 - Santiago, Cile 23/9/1973 - Premio Nobel per la letteratura 1971)

Ahi, non vuoi,
ti spaventa
la povertà,
non vuoi
andare con scarpe rotte al mercato
e tornare col vecchio vestito.
Amore, non amiamo,
come vogliono i ricchi,
la miseria.
Noi la estirperemo come dente maligno
che finora ha morso il cuore dell'uomo.
Ma non voglio
che tu la tema.
Se per mia colpa arriva alla tua casa,
se la povertà scaccia
le tue scarpe dorate,
che non scacci il tuo sorriso che é il pane della mia vita
Se non puoi pagare l'affitto
esci al lavoro con passo orgoglioso,
e pensa, amore, che ti sto guardando
e uniti siamo la maggior ricchezza
che mai s'è riunita sulla terra.


........ e
Se desiderate o siete disponibili per una sana risata autoironica, guardate questo grandissimo Totò con tutto un cast di grandissimo valore. Notevole è l'interpretazione di un indimenticabile Marcello Mastroianni.

Una prestigiosa versione cinematografica dell'opera di Eduardo Scarpetta. Molta esagerazione, ma tantissima autoironia.




domenica 7 aprile 2013

Que Reste-t-il....seulement une photo?

Tutto cambia col tempo.

E il tempo ci cambia, ci migliora o ci peggiora, non lo sappiamo dire.
Ogni tanto, però all'improvviso ci assale la malinconia e prendendoci per mano ci conduce dove vuole lei.
Un luogo che non vediamo più da tanto tempo, magari si anima all'improvviso. Gente che non ha più voce ritorna a vivere nel nostro cuore. Ritornano i rumori, le luci e le ombre, le risate e i pianti, i passi svelti e decisi, o lenti e spensierati insieme a tutto il fremito della realtà di un tempo.
E a noi, mentre rabbrividiamo per l'emozione di un ritorno dal passato, da un viaggio che ci ha turbato, cosa resta?
Così, quasi a suggerirmi la risposta, dalla mia memoria più lontana sono scaturite le parole di Charles Trenet, un emblema della canzone francese degli anni '50, il tempo della mia prima adolescenza:
Que reste-t-il....? Une photo, vieille photo de ma jeunesse.
Cosa resta se non una foto, una vecchia foto della mia giovinezza.






QUE RESTE-T-IL DE NOS AMOURS?

(Charles TRENET / Léo CHAULIAC)

Que reste-t-il de nos amours?
Que reste-t-il de ces beaux jours?
Une photo, vieille photo de ma jeunesse
Que reste-t-il des billets doux?
Des mois d'avril, des rendez-vous?
Un souvenir qui me poursuit sans cesse
Bonheurs fanés, cheveux au vent
Baiser volés, rêves émouvants
Que reste-t-il de tout cela?
Dites-le moi
Un petit village un vieux clocher
Un paysage si bien caché
Et dans un nuage le cher visage
De mon passé

COSA RIMANE DEI NOSTRI AMORI?

(traduzione di Cle Reveries)

Cosa rimane dei nostri amori?
Cosa rimane di quei bei giorni?
Una fotografia, una vecchia fotografia
Della mia gioventù.
Cosa rimane dei teneri biglietti?
Dei mesi d'aprile, degli appuntamenti?
Un ricordo che mi perseguita senza tregua.
Felicità svanita, capelli al vento
Baci rubati, sogni emozionanti.
Cosa resta di tutto questo?
Ditemelo
Un villaggio piccolo, un campanile vecchio,
Un paesaggio ben nascosto,
E in una nuvola il caro volto
Del mio passato.

venerdì 5 aprile 2013

LA SIGNORA M. Picc... E IL BIANCOMANGIARE - un dolce mediterraneo, povero e antichissimo

Potrebbe essere adatto ai vegani o agli intolleranti al latte, infatti questo viene  sostituito con il latte di mandorla (la ricetta senza latte la trovate qui e qui è spiegato benissimo come ottenerlo dalle mandorle).
Prima di addentrarmi nei particolari, permettetemi di ribadire che i mie post sono più che altro banalissimi ricordi, riflessioni, sogni e anche umane considerazioni. Niente cattedra e né bacchetta, solo il proposito di venire compresa da chi come me soffre di questo tipo di deformazione . 
Biancomangiare

Antichissimo, dagli ingredienti semplici il biancomangiare è l'orgoglio della Sicilia, un dolce povero della tradizione mediterranea dalle origini antichissime.
 Anche questo è un ricordo della mia infanzia. Strano come la mia memoria funzioni al contrario rispetto a quella di Proust. La mia,infatti non parte dal profumo o dal sapore per arrivare alle persone o ai fatti, ma segue il percorso inverso.
Così per una frase detta da una mia amica siciliana, una imprecazione del suo dialetto,"botta de sale" un eufemismo per non dire qualcosa di più forte, mi sono ricordata della signora Maria P... e del suo "biancomangiare". Lo preparava in occasione di feste importanti. Per lei era una specie di rito più che un dolce. Per me era un ottimo budino che lei preparava senza latte solo con acqua e mandorle.
La signara Maria P... era di Piana degli Albanesi in provincia di Palermo, un paese arbëreshë, dalle tradizioni antichissime che lei con orgoglio non smetteva mai di ostentare: parlava l''arbërisht quando meno te lo aspettavi ed esibiva continuamente le foto della sua famiglia d'origine sempre persone nel  bellissimo costume tradizionale.

Abitavamo porta a porta, condividevamo un giardino che per noi era una specie di soggiorno all'aperto. Lì facevamo di tutto e tutti insieme. Le mamme sempre presenti leggevano i rotocalchi commentando le notizie scoppiando molto spesso in risate fragorose, oppure lavoravano a maglia confrontandosi e consigliandosi a vicenda.Noi bambini giocavamo facendo tanto chiasso, ma anche tanta allegria, ma anche leggevamo insieme lo stesso fumetto e lo commentavamo .D'inverno era veramente un incanto da favola, tanta neve e tanta fantasia insieme, tutta per noi.....
La Tordella con Bibì e Bibò
Fumetto dei Katzenjammer Kids (1901)

Ritornando alla signora Maria P... All'inizio avevo subito il fascino dell'esotico di questa donna, sui trentacinque anni dalla corporatura massiccia, dal carattere forte e deciso ma anche un po' ignorante. Una specie di Tordella uscita dalle pagine del Corriere dei Piccoli che amavamo leggere.
Ma poi aveva finito per stancarmi, non mi divertiva più il suo rincorrere quella peste di suo figlio, armata di "cucchiara" uno spaventoso, grosso e pesante cucchiaio di legno, gridava ad intervalli "botta di sale!".O il suo modo di truccarsi, niente di straordinario, solo una grossa e spessa striscia di rossetto un po' ondulata e sbavata sulle labbra, e uno smalto di un rosso acceso sulle sue unghie cortissime. Usava anche  truccare sua figlia di cinque anni, e qui era il divertimento, perchè improvvisamente con loro due così conciate diventava carnevale.Quando tutta la famiglia si trasferì altrove, per me non fu un grande dispiacere, forse ero diventata solo più grande. 
L'avevo quasi rimossa del tutto se non fosse stato per quella frase, quel "botta di sale"della mia amica siciliana mentre guidava l'altro giorno indirizzato ad un pedone che ci aveva improvvisamente attraversato la strada. Avevo anche dimentiato il suo biancomangiare, l'antichissimo dolce la cui ricetta come diceva lei risaliva alla notte dei tempi. Forse aveva ragione, ma con certezza questo dolce fu introdotto in Sicilia dagli Arabi. In Italia è presente nei ricettari del secolo XII e Matilde di Canossa lo preparò per il banchetto fatto in occasione della riconciliazione tra il papa Gregorio VII  e l'imperatore Enrico IV del Sacro Romano Impero nel 1077. Dolce che sia per gli ingredienti che per la presentazione rappresentava in quella occasione tutto l'allegorico candore della Chiesa.
Il suo nome è di chiara derivazione francese, le blanc manger, o blanche mangerie, ed è evidente che gli ingredienti, tutti bianchi, chiaramente glielo hanno dato.

Ma non è esclusiva caratteristica siciliana lo si prepara in molte altre parti d'Italia in Sardegna lo chiamano papai-biancu o menjar blanc, in Valle d'Aosta è blanc manger. In Medio Oriente e in Turchia viene preparato seguendo la stessa ricetta da tempi immemorabili e il suo nome in traduzione è sempre "bianco mangiare".
La ricetta che vi consiglio è di "ricette di Sicilia.net" dove con molta chiarezza vengono dati utili suggerimenti e sono spiegati i procedimenti con molta semplicità. Oppure seguite quella di "ricette condivise"
Questa del video di You Tube  mi sembra anche buona     

Per gli intolleranti al latte o ai vegani consiglio questa " Ricetta Biancomangiare dolce mandorle e acqua di Manlio Midori" che trovate al blog "Ricette condivise" ,ma se volete essere sicuri della genuinità del latte di mandorle rivedete qui